Il 19 maggio del 2013 è morto l'attore campigiano Carlo Monni. 

Aveva 69 anni ed era malato da tempo. 

Sono trascorsi 10 anni da quella data ma ancora oggi si percepisce il vuoto che ha lasciato questo attore che aveva iniziato la sua carriera artistica con Roberto Benigni. Idue comici con la loro trasmissione fingevano di disturbare le frequenze della Rai con la fantasiosa Tv Onda Libera che trasmetteva da una stalla di Capalle con tanto di mucche come scenografia. Carlo si definiva contadino e lo era stato proprio in una casa nella frazione La Villa dove era nato e cresciuto. 

Se si dovesse rappresentare Carlo sotto un'altra forma viene da pensare a una grossa radice, ancorata al terreno ma visibile al mondo sotto forma di grossa quercia. Si perché questo attore era profondamente legato al suo territorio. Lo conosceva da sempre. Lo viveva e lo raccontava con passione e ironia. 

Ci manca e abbiamo deciso di ricordarlo pubblicando il suo ritratto uscito qualche tempo fa sul libro “Campigiani si diventa”, edizioni Medicea Firenze.

Ora gli hanno anche intitolato il Teatro Dante e chissà come se la ride da lassù il buon Carlo Monni, stringendo fra le mani il più paradossale degli Oscar, quello dell’attore più amato e celebrato subito dopo la morte. 

Anzi a voler esser più precisi l’Oscar che è toccato a Carlo è stato quello per l’attore con il maggior numero di amici postumi della storia del cinema. Non ha fatto in tempo a chiudere gli occhi, il povero Carlo, che subito gli sono stati intitolati teatri e fermate della tramvia, si sono organizzate commoventi serate in cui sono saliti sul palco soprattutto loro, “gli amici di Carlo”, una fantasmagorica accademia di personaggi convinti, in qualche caso anche giustamente, di aver significato qualcosa nella sua vita. (…). 

Ma tant’è, oggi a Campi Carlo Monni ha addirittura affiancato il Sommo poeta nell’intitolazione del teatro, facendo probabilmente fare una capriola nella tomba al buon conte Rucellai che quel teatro lo fece costruire e che mai avrebbe pensato un giorno potesse essere dedicato nientemeno che all’ultimo contadino campigiano. Ma per capire Carlo Monni e le radici profonde della poeticità del suo personaggio non dovete andare al Teatro Dante; il campigianissimo spirito di Carlo infatti non aleggia lì ma in un altro posto, un “non luogo” che contiene, conserva e sintetizza tutta la sua storia.

Per trovare questo posto bisogna prendere una traversa di via Barberinese che si chiama via dell’Albero e fermarsi al primo incrocio, quello con via Tassoni. Lì un tempo c’era un cipresso secolare: “Lo buttò giù un fulmine nel 1966 l’anno dell’alluvione” mi raccontò un giorno Carlo.

Lì adesso ci sono un paio di ettari di terreno incolto, tutto erbacce, orti abusivi e rovi, risparmiati chissà perché dalle lottizzazioni che hanno creato tutto intorno un enorme quartiere dormitorio. Ecco è lì che aleggia lo spirito di Carlo Monni perché quei due ettari incolti sono ciò che resta del podere in cui Carlo è cresciuto e in cui prima di lui si sono alternate al lavoro chissà quante generazioni di Monni, di Vitellozzi, di Bozzoni. No, la casa di Carlo non c’è più; c’è rimasto solo il fienile, oggi naturalmente diventato “civile abitazione”, che fa angolo tra via dell’Albero e via Tassoni.

Il podere dei Monni si è dunque trasformato in un “non luogo”, figlio dell’urbanizzazione degli anni Settanta-Ottanta; un “non luogo” che riassume tutte le contraddizioni e la poesia di Carlo: come quel campo abbandonato, Carlo è rimasto se stesso mentre intorno tutto cambiava. (…) Esagerava Carlo e sapeva di esagerare, così come sapeva di essere già lui l’incarnazione della crisi di quel mondo millenario: chi l’aveva mai visto un contadino tornare a casa alle due di notte, trascorrere lunghe serate a Firenze a caccia di straniere, imparare a memoria le poesie di Cardarelli, vagheggiare di fare l’attore, perdere infinito tempo dietro alla briscola al bar di Morgarino? No, non s’era mai visto.

E infatti Carlo non era l’ultimo contadino. Carlo era e sapeva di essere il depositario di una cultura millenaria che il boom degli anni Sessanta stava cancellando, togliendole anche la dignità di essere trasmessa e ricordata. Ed è questo che Carlo non ha mai accettato, rifiutando “la tv e la Seicento” e rifiutando soprattutto di andare a lavorare in fabbrica. E dire che l’industrializzazione era andata a prenderselo fin quasi sull’uscio di casa.

Un brutto giorno una parte del suo podere era stata transennata e avevano cominciato a costruirci proprio lì un’enorme, gigantesca tintoria. La Tintoria del Sole. Già, proprio così, “del Sole” come l’autostrada che veniva inaugurata in quegli anni (e di cui avremo modo di parlare a lungo anche in questo libro). La trama di viottoli e fossati disegnata in secoli di paziente coltivazione venne cancellata in un attimo e lì, ai confini dell’antico Padule, atterrò questa fabbrica sterminata che se volevi girarla di cima fino in fondo dovevi prendere una bicicletta.

Cominciò il via vai di camion e furgoni e lunghe file di Fiat Cinquecento e Seicento, per lo più bianche, cominciarono a rimanere parcheggiate lì davanti per otto-dieci ore al giorno. Erano le auto degli operai, simbolo della loro emancipazione e della loro nuova schiavitù. Mi par di vederlo Carlo aspettarli all’uscita e prenderli inesorabilmente per il culo: “Vi fanno lavorare anche 12 ore e se volete anche il sabato e la domenica? Eh, v’avete trovato un lavorino di nulla...”.

Un messaggio assolutamente rivoluzionario per l’epoca, destinato a esser soffocato dagli agi della vita moderna, dal bagno in casa, dalla cucina in formica, dai quindici giorni a pensione al Lido di Camaiore. Alla fine anche i Monni abbandonarono il loro podere e si trasferirono qualche metro più in là, in una casa moderna allineata su via Barberinese a un passo da casa mia, con l’orto sul retro giusto per non tagliare il cordone ombelicale con la terra e il podere. Fu così che Carlo divenne il mio vicino di casa, suo tratto biografico che per me e pochi altri resta fondamentale. (…).

“La tecnologia mi è estranea” avrebbe detto un giorno, quando già impazzavano Facebook e Twitter, con un ghigno beffardo dei suoi, consapevole che questo suo vezzo antitecnologico lo poneva fuori dallo spirito del suo tempo. Ed è proprio lì che voleva stare Carlo: fuori dallo spirito del nostro tempo, per osservarci con il giusto distacco e poter prendere beatamente per il culo le nostre manie, il nostro non saper più guardare il cielo e riconoscere il rumore del “vento di Rovaio”.

Il suo non accettare le convenzioni, le mode e le manie era in fondo il suo modo di essere profondamente e irrimediabilmente anarchico, di un’anarchia primitiva e irriverente tipica dei campigiani del primo Novecento che lui aveva riassunto nel personaggio di Remo Cambi.

Ora, per chi non lo sapesse, Cambi Remo è vissuto realmente e anch’io l’ho conosciuto quando ormai era uno dei vecchietti del “circolo” della Villa, una di quelle facce che vedi da bambino e che pensi siano sempre stati lì, vecchi e a giocare a carte. Cambi Remo, detto così, con il cognome prima del nome come faceva rigorosamente Carlo, era anarchico ma non di quegli anarchici ideologici che magari avevano letto qualche pagina di Bakunin. No, come raccontava Carlo “Era come se un giorno l’anarchia gli fosse piombata nel cervello portata dal vento di Rovaio”, così, senza un motivo.

Ma torniamo da dove siamo partiti, in via dell’Albero. Lì adesso nessuno sa più che un tempo c’era un grande cipresso e nessuno si chiede come mai la strada si chiami in quel modo: lì nessuno sa niente di quel luogo, come purtroppo sta accadendo a troppi “luoghi” campigiani. Anche la Tintoria del Sole ha chiuso i battenti. Un giorno i suoi enormi macchinari sono stati smontati, caricati su dei camion e spediti in India, dove ancora si lavora e si tingono le stoffe. (…). E vi confesso che il giorno in cui da cronista mi portarono a visitare la Tintoria del Sole appena chiusa con il tragico codazzo di licenziamenti e cassa integrazione pensai tutto il tempo a lui, a Carlo Monni e a ciò che la Tintoria del Sole aveva significato per lui. (…). La sua anima, le sue macchine sarebbero state portate via a camion interi, imbarcate e rimontate in India dove sicuramente hanno contribuito a colonizzare altri poderi, a spodestare altri Carlo Monni, a schiavizzare altri operai che non sono più gli ex mezzadri del Padule di Campi Bisenzio ma poveri diavoli provenienti dalle campagne sterminate del Punjab.

E lui, Carlo? A me piace immaginarlo su una scialuppa di salvataggio avvolto in un mantellaccio, la barba lunga e il suo ghigno buono a guardare il transatlantico Tintoria del Sole che affonda con il suo effimero sogno di progresso. La storia fondò il suo modo di essere profondamente e irrimediabilmente anarchico, di un’anarchia primitiva e irriverente tipica dei campigiani del primo Novecento che lui aveva riassunto nel personaggio di Remo Cambi (…). Ma torniamo da dove siamo partiti, in via dell’Albero.

Lì adesso nessuno sa più che un tempo c’era un grande cipresso e nessuno si chiede come mai la strada si chiami in quel modo: lì nessuno sa niente di quel luogo, come purtroppo sta accadendo a troppi “luoghi” campigiani.

Anche la Tintoria del Sole ha chiuso i battenti. Un giorno i suoi i ha dato ragione Carlo: quello sviluppo non era quello giusto. E a dire il vero ha dato ragione anche a Cambi Remo: in fondo produrre il necessario e fermarsi alle due paia di zoccoli è un concetto che oggi chiamiamo ecosostenibilità, anche se a Remo sarà bene non dirlo, pena essere mandati subito e meritatamente affanculo.


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